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Nella scuola si riscopre la differenza di genere.
Maschi e femmine, classi separate
Le ragazze tra loro studiano meglio
Nel mondo 40 milioni di alunni in 210 mila istituti vanno in aula divisi per sesso. I successi in Gran Bretagna
Il compagno di banco può essere un peso. Se è maschio. Perché si distrae, crea confusione, catalizza l’attenzione del professore. «È dimostrato che nelle classi di sole ragazze il livello di apprendimento è migliore», spiega Giuseppe Zanniello, ordinario di Didattica e pedagogia speciale a Palermo. È quel che confermano anche altre ricerche e altre esperienze: dai college della borghesia inglese, ai quartieri ghetto delle metropoli americane. Così, dopo trent’anni in cui nessuno ha messo in discussione il principio delle classi miste, molte scuole stanno rilanciando la separazione: femmine in un’aula, maschi in un’altra. E per socializzare? Ci sono gli amici, le feste e lo sport. Ma fuori da scuola, dove invece «bisogna studiare» e la carica ormonal-caciarona dei maschietti pare non faccia affatto bene. «Né alle femminucce, né agli stessi ragazzi». In Italia, i pasdaran delle «classi omogenee» sono ancora pochi. Ma determinati: respingono ogni accusa di sessismo e rivendicano il loro modello. Con orgoglio. E con qualche argomentazione pedagogica che forse vale la pena ascoltare
Educazione omogenea
Sono più di 210 mila le scuole che, in tutto il mondo, educano oltre 40 milioni di bambini secondo i principi delle differenze di genere. Si chiamano single sex school e, anno dopo anno, stanno minando il dogma della «coeducazione», quel traguardo che, dalla fine degli anni Sessanta, sembrava aver messo la parola fine a ogni discussione sulla pedagogia applicata ai sessi. La tesi che sta alla base del progetto: maschi e femmine sono talmente diversi fisicamente e psicologicamente che sarebbe un errore pretendere che possano fare le stesse cose (per esempio imparare a scrivere) alla stessa età. Meglio tenerli separati. «L’obiettivo — hanno spiegato pedagogisti, psicologi e presidi durante l’ultimo Congresso dell'European Association Single-Sex Education (Easse), lo scorso 24 aprile a Roma — sono le pari opportunità». Per tutti. Perché «se da una parte la presenza maschile limita la leadership femminile, dall’altra i ragazzi sono svantaggiati dal più rapido sviluppo delle compagne».
Discriminazioni e valutazione
Della serie: fai confusione, urla, comportati male e vedrai che conquisti il professore. Sembra un paradosso, ma gli studi presentati lo scorso mese a Roma evidenziano come gli insegnanti diano più retta — non fosse altro che per tenerli a bada — agli alunni maschi e tendano a favorirli nei voti. Risultato: le ragazze sono trascurate e meno apprezzate. E in più «si perdono» nel cercare di farsi accettare dai compagni, entrando anche in conflitto con le coetanee. «Nelle classi omogenee, invece — analizza Klement Polacek, docente emerito della Pontificia università Salesiana di Roma — non solo raggiungono performance migliori, ma emergono nelle materie tecnico scientifiche, a loro solitamente precluse per colpa di uno stereotipo di genere». Anche i ragazzi ne «escono bene »: senza la concorrenza femminile, subiscono meno il gender gap, la differenza di apprendimento.
La rincorsa italiana
Classi omogenee, un possibile modello educativo. I primi ad applicarlo sono stati gli inglesi: nel Regno Unito le single sex school sono 1.092, di cui 416 statali. I risultati, ottimi: tra i dieci migliori istituti del Paese, solo uno è misto. Berlino conta 180 scuole pubbliche omogenee, la Francia 238, mentre negli ultimi sette anni gli Stati Uniti hanno convertito 540 istituti pubblici da misti a differenziati. E in Italia? Un gruppo di genitori milanesi, riunito nell’associazione Faes (Famiglia e scuola), ha fatto nascere dal 1974 a oggi 14 istituti paritari (3 mila alunni dal nido alle superiori) a Napoli, Palermo, Bologna, Roma, Verona, Milano. Le caratteristiche: metodo tutoriale, partecipazione dei genitori e, naturalmente, didattica differenziata per sessi. «Ma il nostro punto cardine — precisa Carmen Pontieri, presidente della Conferenza dei centri Faes — è l’educazione personalizzata di cui l’omogeneità è una conseguenza, non la causa». Le iscrizioni ai centri Faes sono in crescita. «Aumenta l’interesse nei nostri confronti», riconosce la dirigente. La stessa Valentina Aprea, presidente della commissione Cultura alla Camera, al congresso di Roma ha spiegato: «Ogni forma di omologazione riduce la pienezza della persona-donna e della persona-uomo. La scuola italiana ha il dovere di fornire una pluralità di modalità educative». Un’apertura che lascerebbe supporre l’ingresso dell’educazione omogenea nel sistema pubblico. «Ma solo nell’ambito dell’autonomia e con il consenso dei genitori — precisa la parlamentare — e senza leggi ad hoc».
Il caso del Bronx
Se in Italia le classi differenziate sono un’esclusiva delle scuole paritarie (e dunque a pagamento), negli Stati Uniti diventano sinonimo di riscatto sociale per i ceti poveri. È il caso della Young Women’s leadership school di New York, istituto del Bronx nato nel 1996 e frequentato da sole alunne che nel 70 per cento dei casi vivono al di sotto della soglia di povertà. «I fondatori — racconta Josep Barnils, ideatore dell’Easse — si resero conto che le studentesse vivevano in una realtà dominata dai maschi. Un anno dopo tutte le tensioni erano sparite». Nel 2002 si è iscritto all’università il 96 per cento di quelle giovani del Bronx. A New York la media è del 50 per cento.
I contrari
Le critiche alla scuola omogenea non mancano: «Si torna indietro di 40 anni»; «Dividere maschi e femmine è frutto di fobia sessista»: «È una forma di discriminazione». Tra gli scettici c’è lo psicologo Fulvio Scaparro: «Il contatto tra generi è un arricchimento: rimanendo separati si perde la relazione con l’altro sesso in un’età in cui c’è bisogno di conoscersi e stare vicini. Insomma, in nome di un eventuale profitto 'superlativo', il prezzo da pagare mi sembra troppo alto». Anche la scrittrice (e professoressa) Paola Mastrocola è perplessa: «Sarebbe bello potersi permettere il lusso di riflettere su certe questioni. Ma i problemi della scuola, oggi, sono altri». Scaparro una soluzione — provocatoria — ce l’avrebbe: «Se il contatto tra generi è così pericoloso in classe, allora può esserlo anche sul lavoro. Dividiamo gli uffici: perché a scuola sì e negli altri posti no?».
Annachiara Sacchi
Corriere della Sera 10 maggio 2009
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