venerdì 16 ottobre 2009

Maschi e femmine, classi separate

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uno due o tre

Nella scuola si riscopre la differenza di genere.
Maschi e femmine, classi separate
Le ragazze tra loro studiano meglio
Nel mondo 40 milioni di alunni in 210 mila istituti vanno in aula divisi per sesso. I successi in Gran Bretagna
Il compagno di banco può essere un peso. Se è maschio. Perché si distrae, crea confusione, cata­lizza l’attenzione del professore. «È dimostrato che nelle classi di sole ragazze il livello di apprendi­mento è migliore», spiega Giuseppe Zanniello, ordi­nario di Didattica e pedagogia speciale a Palermo. È quel che confermano anche altre ricerche e altre esperienze: dai college della borghesia inglese, ai quartieri ghetto delle metropoli americane. Così, do­po trent’anni in cui nessuno ha messo in discussione il principio delle classi miste, molte scuole stanno ri­lanciando la separazione: femmine in un’aula, ma­schi in un’altra. E per socializzare? Ci sono gli amici, le feste e lo sport. Ma fuori da scuola, dove invece «bisogna studiare» e la carica ormonal-caciarona dei maschietti pare non faccia affatto bene. «Né alle fem­minucce, né agli stessi ragazzi». In Italia, i pasdaran delle «classi omogenee» sono ancora pochi. Ma de­terminati: respingono ogni accusa di sessismo e ri­vendicano il loro modello. Con orgoglio. E con qual­che argomentazione pedagogica che forse vale la pe­na ascoltare

Educazione omogenea
Sono più di 210 mila le scuole che, in tutto il mon­do, educano oltre 40 milioni di bambini secondo i principi delle differenze di genere. Si chiamano sin­gle sex school e, anno dopo anno, stanno minando il dogma della «coeducazione», quel traguardo che, dalla fine degli anni Sessanta, sembrava aver messo la parola fine a ogni discussione sulla pedagogia ap­plicata ai sessi. La tesi che sta alla base del progetto: maschi e fem­mine sono talmente diversi fisicamente e psicologica­mente che sarebbe un errore pretendere che possano fare le stesse cose (per esempio imparare a scrivere) alla stessa età. Meglio tenerli separati. «L’obiettivo — hanno spiegato pedagogisti, psicologi e presidi durante l’ultimo Congresso dell'European Associa­tion Single-Sex Education (Easse), lo scorso 24 aprile a Roma — sono le pari opportunità». Per tutti. Per­ché «se da una parte la presenza maschile limita la leadership femminile, dall’altra i ragazzi sono svan­taggiati dal più rapido sviluppo delle compagne».

Discriminazioni e valutazione
Della serie: fai confusione, urla, comportati male e vedrai che conquisti il professore. Sembra un para­dosso, ma gli studi presentati lo scorso mese a Roma evidenziano come gli insegnanti diano più retta — non fosse altro che per tenerli a bada — agli alunni maschi e tendano a favorirli nei voti. Risultato: le ra­gazze sono trascurate e meno apprezzate. E in più «si perdono» nel cercare di farsi accettare dai compagni, entrando anche in conflitto con le coetanee. «Nelle classi omogenee, invece — analizza Klement Pola­cek, docente emerito della Pontificia università Sale­siana di Roma — non solo raggiungono performan­ce migliori, ma emergono nelle materie tecnico scien­tifiche, a loro solitamente precluse per colpa di uno stereotipo di genere». Anche i ragazzi ne «escono be­ne »: senza la concorrenza femminile, subiscono me­no il gender gap, la differenza di apprendimento.

La rincorsa italiana
Classi omogenee, un possibile modello educativo. I primi ad applicarlo sono stati gli inglesi: nel Regno Unito le single sex school sono 1.092, di cui 416 stata­li. I risultati, ottimi: tra i dieci migliori istituti del Pae­se, solo uno è misto. Berlino conta 180 scuole pubbli­che omogenee, la Francia 238, mentre negli ultimi sette anni gli Stati Uniti hanno convertito 540 istituti pubblici da misti a differenziati. E in Italia? Un grup­po di genitori milanesi, riunito nell’associazione Fa­es (Famiglia e scuola), ha fatto nascere dal 1974 a og­gi 14 istituti paritari (3 mila alunni dal nido alle supe­riori) a Napoli, Palermo, Bologna, Roma, Verona, Mi­lano. Le caratteristiche: metodo tutoriale, partecipa­zione dei genitori e, naturalmente, didattica differen­ziata per sessi. «Ma il nostro punto cardine — preci­sa Carmen Pontieri, presidente della Conferenza dei centri Faes — è l’educazione personalizzata di cui l’omogeneità è una conseguenza, non la causa». Le iscrizioni ai centri Faes sono in crescita. «Aumenta l’interesse nei nostri confronti», riconosce la dirigen­te. La stessa Valentina Aprea, presidente della com­missione Cultura alla Camera, al congresso di Roma ha spiegato: «Ogni forma di omologazione riduce la pienezza della persona-donna e della persona-uo­mo. La scuola italiana ha il dovere di fornire una plu­ralità di modalità educative». Un’apertura che lasce­rebbe supporre l’ingresso dell’educazione omogenea nel sistema pubblico. «Ma solo nell’ambito dell’auto­nomia e con il consenso dei genitori — precisa la par­lamentare — e senza leggi ad hoc».

Il caso del Bronx
Se in Italia le classi differenziate sono un’esclusiva delle scuole paritarie (e dunque a pagamento), negli Stati Uniti diventano sinonimo di riscatto sociale per i ceti poveri. È il caso della Young Women’s leader­ship school di New York, istituto del Bronx nato nel 1996 e frequentato da sole alunne che nel 70 per cen­to dei casi vivono al di sotto della soglia di povertà. «I fondatori — racconta Josep Barnils, ideatore del­l’Easse — si resero conto che le studentesse viveva­no in una realtà dominata dai maschi. Un anno dopo tutte le tensioni erano sparite». Nel 2002 si è iscritto all’università il 96 per cento di quelle giovani del Bronx. A New York la media è del 50 per cento.

I contrari
Le critiche alla scuola omogenea non mancano: «Si torna indietro di 40 anni»; «Dividere maschi e femmine è frutto di fobia sessista»: «È una forma di discriminazione». Tra gli scettici c’è lo psicologo Ful­vio Scaparro: «Il contatto tra generi è un arricchimen­to: rimanendo separati si perde la relazione con l’al­tro sesso in un’età in cui c’è bisogno di conoscersi e stare vicini. Insomma, in nome di un eventuale pro­fitto 'superlativo', il prezzo da pagare mi sembra troppo alto». Anche la scrittrice (e professoressa) Pa­ola Mastrocola è perplessa: «Sarebbe bello potersi permettere il lusso di riflettere su certe questioni. Ma i problemi della scuola, oggi, sono altri». Scaparro una soluzione — provocatoria — ce l’avrebbe: «Se il contatto tra generi è così pericoloso in classe, allora può esserlo anche sul lavoro. Dividiamo gli uffici: perché a scuola sì e negli altri posti no?».

Annachiara Sacchi
Corriere della Sera 10 maggio 2009

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